Saturday, 27 December 2014

NE TRAVAILLEZ JAMAIS / CAPITALISM KILLS LOVE / ELOGIO DELL’AMATERISMO - TEXT IN PROGRESS - Lettera agli artisti antagonisti



NE TRAVAILLEZ JAMAIS / CAPITALISM KILLS LOVE / ELOGIO DELL’AMATERISMO - TEXT IN PROGRESS - Lettera agli artisti antagonisti

Vengo da una tradizione di sovversione in cui le persone consideravano come il loro vero Lavoro, il grande, importante Lavoro, non quello che gli faceva guadagnare i soldi necessari a vivere, ma quello per cui non avrebbero mai ricevuto soldi da nessuno, piuttosto avrebbero ricevuto difficoltà economiche, giuridiche, magari violenza fisica, magari perdita dei diritti civili, magari arresti e colpi di manganello.

Poi  ho incontrato una giovane tradizione artistica in cui le persone consideravano che il Lavoro, il vero, grande, importante Lavoro, non era quello che faceva guadagnare da vivere, ma anzi qualcosa che doveva restare assolutamente indipendente dal soddisfare qualunque tipo di necessita’ economica, e in generale qualunque bisogno che non nascesse al proprio interno e fosse relativo solo al Lavoro.  Ogni altro tipo di problema e di bisogno doveva essere risolto da ognuno come poteva, se poteva, altrove, o da altri, o in altri tempi, senza interferire.

I professionisti si vendono. Si vendono per denaro. Gli amatori lo fanno per amore. In questo senso l’amaterismo e’ un valore piu’ elevato del professionismo. Vendersi per denaro vuole dire vendersi al sistema neoliberista, corrispondere al ruolo che il sistema capitalista assegna agli artisti. Gli artisti, eccezionali ed originali per dovere di categoria ma di fatto del tutto allineati, il loro stile diverso e’ la loro uniforme, la loro funzione – se producono contenuti sovversivi – e’ il lavaggio di coscienza. Denunciare ed esprimere la critica perche’ tutto resti uguale. I conflitti si scaricano in azioni catartiche e si evacuano sul piano emotivo o estetico, senza andare mai intaccare i punti caldi, modificare i rapporti di potere, mettere in questione il terreno di relazioni dove si gestisce la materialita’ dell’arte e della societa’.

Lavorare a gratis, nel senso di lavorare non per soldi, e’ gia’ sottrarsi a questa funzione, liberarsi dal ricatto economico, trovare altrove la propria motivazione, la propria legittimita’, il proprio metro di valore.

Comunque come artisti vogliamo essere riconosciuti. Abbiamo questo bisogno, questa esigenza, questo vizio. Come artisti e come esseri umani. Ma riconosciuti da chi? Questo punto e’ essenziale. Chi e’ importante per noi? Qual’e’ il metro di valore a cui ci rivolgiamo? Qual’e’il parere che conta? Chi puo’ darlo?
Spesso, vogliamo essere riconosciuti da  chi e’ riconosciuto. Ed e’ riconosciuto solo chi e’ professionista, ed e’ professionista solo chi e’ riuscito a vendersi,  chi e’ entrato nel sistema dell’arte, passato dal filtro delle leggi del mercato e parte del gotham dei monopoli neoliberisti. Allora andiamo malgrado tutto a bussare alle porte di chi e’ riuscito a diventare un brand, a sbavare sulle istituzioni, le fondazioni, sperando che la nostra diversita’ e il nostro antagonismo si possano gloriare e rafforzare di un po’ della loro polvere di stelle, di un po’ di briciole della loro economia, per legittimarci, per poter dire che comunque siamo degli artisti seri, che possiamo dimostrarlo, che e’ ammesso anche da quelli che contano. Quelli che contano.

Andiamo a esibirci nei locali, nei bagni estivi, nei ristoranti, nei festival, li’ dove almeno ci danno 150 euro, per poter dire che non lavoriamo gratis, che non siamo dilettanti - e alla fine preferiamo farci sfruttare da chi ci paga poco e guadagna su di noi, piuttosto che lavorare non per denaro, per chi non guadagna niente e non paga niente, per chi vorremmo, per noi stessi, per una produzione di valore e di senso altro. Non e’ il problema che abbiamo bisogno di soldi per vivere. Il problema e’ che abbiamo bisogno dei soldi per giustificare le nostre azioni e il nostro valore.

Siamo deboli e trasparenti e permeabili perche’ non fondiamo la nostra legittimita’ sul nostro amore, sulla nostra spina dorsale, ma abbiamo sempre bisogno, anche nel conflitto, di riuscire comunque, se non per soldi almeno per approvazione, a venderci e a promuoverci a chi ha saputo vendersi. Allora il sistema resta il nostro referente ultimo. 

Mentre abbiamo bisogno di tutta la nostra consistenza, il nostro corpo integro, per mettere il focus sull’altrove che desideriamo, dove le cose che facciamo si completano nel loro proprio senso, in un’interazione libera con il contesto, nell’impatto che vogliamo avere.

Dividere i campi, nella schizofrenia a cui ci obbliga il sistema attuale, e’ attualmente una posizione legittima. Si fa’ qualcosa per guadagnarsi da vivere. E quello ha valore pragmatico, non si puo’ evitare. Poi si fa’ qualcos’altro per davvero, e quello ha un valore enorme, non calcolabile in denaro, e non deve avere niente a che fare con il profitto, con il reddito e con tutti i vincoli e i meccanismi del capitalismo. Capitalism kills love.

E’ la nostra percezione interna, invisibile agli occhi ma determinante in tutto, che crea il distinguo. La nostra attribuzione di valore. Quello che conta non e’ quello che rende. Quello che rende non conta molto. Quello che stiamo facendo per davvero, che ci da’ dignita’, quello in cui ci identifichiamo e per cui ci spendiamo e da cui riceviamo senso, il vero-grande-importante Lavoro, e’ svincolato, indipendente e superiore a qualunque meccanismo di reddito neolibersita.

Magari va’ contro al sistema, e’ antagonista o alieno. Bisogna farne un punto di forza. Questo gli attivisti, quelli davvero impegnati in forme di lotta e resistenza, lo sanno. Non possiamo aspettarci di essere pagati nel sistema per fare qualcosa che sia nettamente contro o fuori dal sistema.

Nhandan Chirco

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