NE TRAVAILLEZ JAMAIS / CAPITALISM KILLS LOVE / ELOGIO DELL’AMATERISMO
- TEXT IN PROGRESS - Lettera agli artisti antagonisti
Vengo da una tradizione di sovversione in cui le persone
consideravano come il loro vero Lavoro, il grande, importante Lavoro, non
quello che gli faceva guadagnare i soldi necessari a vivere, ma quello per cui
non avrebbero mai ricevuto soldi da nessuno, piuttosto avrebbero ricevuto
difficoltà economiche, giuridiche, magari violenza fisica, magari perdita dei
diritti civili, magari arresti e colpi di manganello.
Poi ho incontrato una
giovane tradizione artistica in cui le persone consideravano che il Lavoro, il
vero, grande, importante Lavoro, non era quello che faceva guadagnare da
vivere, ma anzi qualcosa che doveva restare assolutamente indipendente dal
soddisfare qualunque tipo di necessita’ economica, e in generale qualunque
bisogno che non nascesse al proprio interno e fosse relativo solo al
Lavoro. Ogni altro tipo di problema e di
bisogno doveva essere risolto da ognuno come poteva, se poteva, altrove, o da
altri, o in altri tempi, senza interferire.
I professionisti si vendono. Si vendono per denaro. Gli amatori
lo fanno per amore. In questo senso l’amaterismo e’ un valore piu’ elevato del
professionismo. Vendersi per denaro vuole dire vendersi al sistema
neoliberista, corrispondere al ruolo che il sistema capitalista assegna agli
artisti. Gli artisti, eccezionali ed originali per dovere di categoria ma di
fatto del tutto allineati, il loro stile diverso e’ la loro uniforme, la loro
funzione – se producono contenuti sovversivi – e’ il lavaggio di coscienza. Denunciare
ed esprimere la critica perche’ tutto resti uguale. I conflitti si scaricano in
azioni catartiche e si evacuano sul piano emotivo o estetico, senza andare mai
intaccare i punti caldi, modificare i rapporti di potere, mettere in questione
il terreno di relazioni dove si gestisce la materialita’ dell’arte e della
societa’.
Lavorare a gratis, nel senso di lavorare non per soldi, e’
gia’ sottrarsi a questa funzione, liberarsi dal ricatto economico, trovare
altrove la propria motivazione, la propria legittimita’, il proprio metro di
valore.
Comunque come artisti vogliamo essere riconosciuti. Abbiamo questo
bisogno, questa esigenza, questo vizio. Come artisti e come esseri umani. Ma riconosciuti da chi? Questo punto e’
essenziale. Chi e’ importante per noi? Qual’e’ il metro di valore a cui ci
rivolgiamo? Qual’e’il parere che conta? Chi puo’ darlo?
Spesso, vogliamo essere riconosciuti da chi e’ riconosciuto. Ed e’ riconosciuto solo
chi e’ professionista, ed e’ professionista solo chi e’ riuscito a vendersi, chi e’ entrato nel sistema dell’arte, passato
dal filtro delle leggi del mercato e parte del gotham dei monopoli neoliberisti.
Allora andiamo malgrado tutto a bussare alle porte di chi e’ riuscito a
diventare un brand, a sbavare sulle istituzioni, le fondazioni, sperando che la
nostra diversita’ e il nostro antagonismo si possano gloriare e rafforzare di
un po’ della loro polvere di stelle, di un po’ di briciole della loro economia,
per legittimarci, per poter dire che comunque siamo degli artisti seri, che
possiamo dimostrarlo, che e’ ammesso anche da quelli che contano. Quelli che
contano.
Andiamo a esibirci nei locali, nei bagni estivi, nei ristoranti, nei festival, li’ dove almeno ci danno 150 euro, per poter dire che non lavoriamo gratis, che
non siamo dilettanti - e alla fine preferiamo farci sfruttare da chi ci paga
poco e guadagna su di noi, piuttosto che lavorare non per denaro, per chi non
guadagna niente e non paga niente, per chi vorremmo, per noi stessi, per una
produzione di valore e di senso altro. Non e’ il problema che abbiamo bisogno
di soldi per vivere. Il problema e’ che abbiamo bisogno dei soldi per
giustificare le nostre azioni e il nostro valore.
Siamo deboli e trasparenti e permeabili perche’ non fondiamo
la nostra legittimita’ sul nostro amore, sulla nostra spina dorsale, ma abbiamo
sempre bisogno, anche nel conflitto, di riuscire comunque, se non per soldi
almeno per approvazione, a venderci e a promuoverci a chi ha saputo vendersi. Allora
il sistema resta il nostro referente ultimo.
Mentre abbiamo
bisogno di tutta la nostra consistenza, il nostro corpo integro, per mettere il
focus sull’altrove che desideriamo, dove le cose che facciamo si completano nel
loro proprio senso, in un’interazione libera con il contesto, nell’impatto che
vogliamo avere.
Dividere i campi, nella schizofrenia a cui ci obbliga il
sistema attuale, e’ attualmente una posizione legittima. Si fa’ qualcosa per
guadagnarsi da vivere. E quello ha valore pragmatico, non si puo’ evitare. Poi
si fa’ qualcos’altro per davvero, e quello ha un valore enorme, non calcolabile
in denaro, e non deve avere niente a che fare con il profitto, con il reddito e
con tutti i vincoli e i meccanismi del capitalismo. Capitalism kills love.
E’ la nostra percezione interna, invisibile agli occhi ma
determinante in tutto, che crea il distinguo. La nostra attribuzione di valore.
Quello che conta non e’ quello che rende. Quello che rende non conta molto.
Quello che stiamo facendo per davvero, che ci da’ dignita’, quello in cui ci
identifichiamo e per cui ci spendiamo e da cui riceviamo senso, il vero-grande-importante
Lavoro, e’ svincolato, indipendente e superiore a qualunque meccanismo di
reddito neolibersita.
Magari va’ contro al sistema, e’ antagonista o alieno. Bisogna
farne un punto di forza. Questo gli attivisti, quelli davvero impegnati in
forme di lotta e resistenza, lo sanno. Non possiamo aspettarci di essere pagati
nel sistema per fare qualcosa che sia nettamente contro o fuori dal sistema.
Nhandan Chirco