OPEN BORDERS CARAVAN - Report il giorno dopo
Open Borders Caravan una notte insonne. 200 persone da
diversi paesi, venuti come attivisti
piu’ che come volontari, partiti per un’azione politica, per dare sostegno
soprattutto premendo sulla frontiere in un confronto impari e disarmato con le
forze dell’ordine, per aiutare i migranti a passare a piedi o magari in
macchina. Al contatto diretto la realta’ che troviamo travolge le nostre
aspettative e i nostri piani, la complessita’ della situazione si espande ancora,
situazione in continua mutazione, fatta di flussi che cambiano percorso, di
direttive di chiusura e di apertura arbitrarie e imprevedibili. Le politiche della chiusura dei confini
cozzano con la pratica del transito sommerso organizzato in accordo tra i
diversi Governi con la collaborazione delle polizie dei vari Stati, la gestione
di percosri invisibili e il supporto logistico hanno il colore e le
atmosfere della deportazione, binario parallelo dove i diritti civili e le
minime norme di umanita’, salute e sicurezza non esistono piu’. Masse di gente
mossa come mandria, qualcuno senza scarpe, tutti senza acqua e senza cibo, non
c’e’riparo da pioggia freddo e fango, con molti bambini a piedi e in braccio,
indirizzati da cordoni di polizia tra i boschi a ritmo veloce e obbligato,
verso valichi di confine costituiti da 3 metri di filo spinato tagliato dove si
passa tre per volta sotto il controllo degli agenti. Poi caricati in un altro
treno che parte solo quando pieno da scoppiare non si sa per dove, che si ferma di nuovo nel mezzo della
campagna, nella notte si deve scendere senza sapere neanche in che Stato ci si
trovi. Il percorso obbligato e’ attraverso l’Ungheria, non a caso dove
l’apparato repressivo e’ dispiegato al massimo del suo potenziale, con la
proclamazione dello stato d’emergenza e l’autorizzazione a esercito e polizia a
fare fuoco su chi attraversa i confini illegalmente. Gli agenti dicono di
scendere dal treno megafonando in inglese e tedesco – tutti fuori. Fuori nella notte tra i campi. Al
passaggio del corteo c’e’ un odore
greve, persone che da giorni non possono
lavarsi. Alcuni mi chiedono se questa e’ l’Ungheria e gli dico che no, siamo in
Croazia, mi chiedono dove li stanno portando – per 4 km a piedi - e dico che
credo in Ungheria e poi verso l’Austria ma che non lo sappiamo perche ad ogni
momento tutto puo’ cambiare. Nessuno e’ sicuro di niente. Vengono da Siria,
Kurdistan, Afghanistan – sono i nomi
delle nostre guerre. Ad aspettarli al treno cordoni di polizia, pompieri, un ambulanza,
luci di sirene che abbagliano e confondono, non c’e’ cibo ne acqua, agenti con
caschi guanti e cuffiette antipidocchi - oltre a quelli non c’e’ nessuno.
Sabato notte c’eravamo noi, che alla fine non abbiamo fatto cortei e cordoni
perche’ non chiudessero anche quel valico – infame ma precariamente aperto –
lasciando la gente al gelo umido per giorni, come succedeva a Opatovac
settimana scorsa, come davanti a
frontiere blindate dove migliaia di
persone restano in attesa per giorni, picchiate all’occorrenza. L’intelligenza
si manifesta anche nel sapere cambiare il proprio programma se e’ il caso.
Abbiamo distribuito quanto possibile, giacche, scarpe, assorbenti, cibo e acqua
e quant’altro. Un vecchio con in braccio un bimbo in una coperta e una bambina
in spalla e due al fianco cerca scarpe che gli entrino perche’ ne ha una sola.
Corro con una torcia elettrica tra polizia, migranti e attivisti che mi
propongono giacche e cibo a cercare questa scarpa tra le mucchie e forse gia’
questa sola scarpa ora vale per me i 600km di viaggio. Il contatto diretto
destabilizza la distinzione rigida tra azione politica e umanitaria,
impossibile fare un copy paste di schemi conosciuti su un terreno che e’ piu’
forte, nuovo, diverso e sempre in trasformazione. La realta’ che incontriamo scuote i nostri
problemi identitari, ci riporta al confronto con noi stessi e poi a scavalcarlo
e finalmente all’ esserci, vedere, agire, entrare in rapporto. La frontiera
ufficiale e’ chiusa, vuota, non si passa, non ha senso andarci, non c’e’
nessuno, niente da vedere. I migranti stavano passando altrove - onde di spinta e conquiste loro in altri
orari e in altri luoghi gli aprono varchi in posti imprevedibili e di durata
indeterminata con la collaborazione di Stati che da un lato non rinunciano
all’idiozia delle politiche di chiusura, ma nella pratica si sanno gia’
sconfitti - sanno di non poterle attuare e aggirano con sotterfugi e segretezza
le loro stesse leggi, infliggono ai
viaggiatori questa pena inutile per salvare la facciata delle dichiarazioni
ufficiali. Stati che funzionano su doppio binario, su un mondo parallelo fuori
dalla propria legge e soprattutto tenuto
invisibile al mondo ufficiale - mondo di lager e di treni speciali e di
filo spinato e di megafoni nel buio.
Andare, prima di tutto. Attuare nella pratica pratiche opposte a quelle
delle politiche governative. Partecipazione e mobilitazione diretta per dire
welcome piangendo e gridando che siamo qui con voi e saremo a Bruxelles a dire
basta e torneremo domani ad aspettarvi al treno e ad accompagnarvi e a spingere
con voi sulle reti quando e’ il momento. Andare, essere con loro. Questa e’
partecipazione ed ha valore politico - pratiche dal basso, di contrasto, di
solidarieta’ di un’ altra non-Europa-fortezza. Il terreno d’azione con cui si
concludeva la carta di Lampedusa: aprendo alle pratiche, all’iniziativa diretta
- una nostra diversa legislazione da mettere in atto, la sola a cui rispondiamo
e opposta alla criminalita’ delle leggi ufficiali. Andare. Quando c’e’ la compresenza
dei corpi, quando un oggetto passa da
una mano all’altra si rompe l’incantesimo della distanza mediatica, che mentre
ci da tutte le informazioni e ci fa’ sapere (quasi) tutto allo stesso tempo
misteriosamente ci allontana e ci separa in mondi non comunicanti. La membrana
si lacera e tutto questo ora e’ qui nello stesso spazio tempo. E tutto cambia
ancora. (28/9/2015)
Nhandan Chirco
Opatovac e Bapska / Settembre 2015
Foto - Francesco Giusti
Foto - Francesco Giusti